Erano le undici del mattino. Io e Adama, uno dei miei compagni di viaggio nell’avventura del progetto Abitiamo, camminavano lungo il corso di Viterbo. La città pareva immobile. Non una persona, un grido, un brusio per la strada. Solo voci lontane, rifugiate nelle loro case, coperte da una coltre di paura e di impotenza. Neanche noi parlavamo e i nostri piedi si muovevano coordinandosi al ritmo di quell’ insolito silenzio. Non pronunciavamo parola ma ascoltavamo i raggi del sole. Quando ciò a cui sei abituato ti viene negato tutto assume un sapore diverso. Impari a dare valore a ciò che hai e di cui prima neanche ti rendevi conto. E così il cielo non è più una scontata macchia azzurra che si poggia silente sopra la tua testa ma diviene un grido liberatorio e rasserenante. Non era solo il tiepido calore di primavera a riscaldarci ma la direzione dei nostri passi. Andavamo alla mensa della Caritas diocesana. Sapevamo che lì non ci impegnavamo solo a preparare pasti caldi per i più bisognosi ma che ricevevamo e diffondevamo calore. Le mascherine che coprivano i volti non ci impedivano di scorgere l’esplosione di un sorriso. Le distanze di sicurezza non ostruivano il tragitto della gratitudine, che rimbombava così vicina. La mensa non è solo un posto dove ci si impegna per il soddisfacimento delle necessità primarie dei più vulnerabili. È un luogo di incontro, di condivisione, di umiltà, in cui chi viene sa di non trovare solo un pasto ma anche accoglienza e cura. E certe persone hanno bisogno più di altre di essere accolte e curate. Per alcuni l’umanità si è mostrata indifferente e impietosa ormai da tempo. I derelitti sono già abituati ad essere allontanati ed ora che il mondo si scopre così vulnerabile intensifica questa lontananza. Il male forse non è solo il Covid-19 ma è quello che si cela dietro la paura, l’individualismo, l’indifferenza. E così il mio pensiero non può far altro che indossare vesti riflessive e profonde. Rifletto su quanto questo duro pezzo di storia che siamo chiamati a vivere ci porti a scavarci dentro, ad addentrarci nei meandri della nostra sensibilità, a interrogarci sul vero significato della parola essere umano. Da qualche giorno alla mensa noi volontari abbiamo deciso di portare una radio per addolcire con la musica un momento tanto intriso di difficoltà e di preoccupazione. Una mattina, mentre ero intenta a riempire i piatti, una canzone si è diffusa nell’ aria e le sue parole ritmate e melodiose sono diventate un ritornello canticchiato anche dalla mia anima.
“Come posso io non celebrarti vita?
Oh, vita
Oh, vita”